THE COMEDIAN 2019 ART BASEL Miami MAURIZIO CATTELAN
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Cattelan trasforma oggetti banali in “veicoli sia di gioia che di critica”: l'Effetto social in "The Comedian".
The Comedian è un’opera riflessiva sul comportamento umano e sociale, lo scopo è quello di presentare a tutto il mondo come una semplice banana da trenta centesimi di dollaro possa cambiare completamente significato e valore se le viene cambiato il contesto che la circonda.
Quando un collezionista compra un qualsiasi elemento comune come opera d’arte, è consapevole di partecipare a un grande spettacolo, e come in uno spettacolo la finzione diventa verità. La banana è un nuovo atto di questo spettacolo, il più recente, forse neanche il più irriverente, di sicuro non il più originale. E il titolo che l’artista ha scelto, Comedian, dovrebbe render palese ed evidente che la banana, molto semplicemente, seguita a tener sollevato il sipario.
A questa riflessione si può aggiungere la constatazione che, come suole accadere in ogni spettacolo credibile, la pièce funziona solo se interpretata da attori titolati. Attaccare una banana al muro non è condizione sufficiente e necessaria per definirsi artista: è il percorso compiuto per arrivare a quella banana che la tramuta in un’opera d’arte e che le garantisce uno status inequivocabile (poco importa che la si consideri un lavoro interessante o, viceversa, un’opera fiacca, e poco importa che la si reputi una bravata dell’artista), è il lavoro che l’artista ha compiuto in precedenza a dividere Cattelan da qualsiasi velleitario imitatore o dagli squallidi pittori da sagra paesana che lo attaccano non avendo ancora ben chiaro che l’arte, negli ultimi cent’anni, ha conosciuto alcune modificazioni e alcuni sviluppi e non è più ferma ai ritratti di vecchie o agli scorci di campagne fiorite di lavanda.
E in Comedian tutto parla di Maurizio Cattelan, tutto è Maurizio Cattelan. La parete bianca, la banana chiazzata di macchie marroni ch’è giunta al culmine del suo processo di maturazione e di lì a breve comincerà a deperirsi, il nastro isolante che la fissa al muro, il valore commerciale attribuito all’opera, il clamore mediatico, le reazioni del pubblico, le divisioni della critica.
Comedian è un’opera che, comunque la si voglia pensare, trova una collocazione estremamente coerente nel percorso di Cattelan: è puro teatro, è uno spettacolo nello spettacolo, è un nuovo dramma di cui Cattelan è il regista (un regista di quelli che forse poco o niente si curano della reazione del pubblico), e del quale noi siamo spettatori cui spetta decidere come trovare la pièce: possiamo essere divertiti, tristi, seri, annoiati, furiosi, saccenti, indifferenti, astiosi, frustrati. Non ha importanza. E ugualmente poco cambia se l’opera sia stata effettivamente venduta o meno, o se il lavoro di Cattelan venga ritenuto, tutto sommato, poco innovativo.
Per un conoscitore d’arte contemporanea, Comedian è un’opera Concettuale che si traduce in un oggetto materialmente irrilevante, perché quello che conta è l’idea. È questa infatti a essere venduta, sotto forma di certificato firmato dall’artista: una specie di progetto minimale che descrive come debba essere realizzata.
In The Comedian si rende opera d’arte una semplice banana grazie al contesto de social: a Cattelan è bastato un semplice gesto che, affidato al pubblico odierno famelico dei media e alla creatività dei social per “consacrare” il gesto dell’artista come opera d’arte.
Una commedia nella commedia perché dall’istante in cui l’opera ha iniziato a “viaggiare” ha preso nuovi aspetti e ha iniziato a raccontare nuove storie, vedi gli innumerevoli Meme nati da lì a poco. Insomma, l’opera in sé ha perso la sua importanza per trasformarsi, in una mega performance da social, una grande commedia, ossia quella della spettacolarizzazione di un gesto. Non solo…Durante il secondo giorno di esposizione, un altro artista, David Datuna, ha preso la banana di Cattelan e l’ha mangiata in diretta davanti alle telecamere. L’azione è diventata a sua volta una performance artistica, chiamata Hungry Artist (“l’artista affamato”).
Il video della banana da 120 mila dollari divorata in pochi morsi ha fatto subito il giro del mondo andando ad aumentare ulteriormente la sua fama e il suo valore di mercato.
L’effetto “The Comedian” nella Gioconda di Leonardo Da Vinci.
La Gioconda NON è il quadro tecnicamente migliore del mondo. Gli storici dell’arte, ad esempio, sono concordi nel dire che non si tratti nemmeno dell’opera migliore di Da Vinci, figuriamoci di tutta l’arte.La Gioconda è diventata la Gioconda perché è stato il lavoro dei “media”, a farla diventare di valore inestimabile.
La Gioconda fu dipinta da Leonardo da Vinci a Firenze, nel 1503-1504, ma quando venne invitato a lavorare alla corte francese di Francesco I, decise di portarla con sé e qui vi rimase indisturbata per molti anni. Il re di Francia Francesco I inizialmente la espose nel suo castello a Fontainebleau, venne poi spostata a Versailles da Luigi XIV, dove vi rimase fino alla rivoluzione francese. Da quel momento in poi fu inserita nelle collezioni del Museo del Louvre, eccetto che per alcuni anni, quando Napoleone Buonaparte decise di tenerla nella sua camera da letto.
Questa in breve la sua vita finché non compare sulla scena un certo Vincenzo Peruggia che le “ravviverà” la sua esistenza (effetto The Comedian”)
Le pagine dei giornali di tutto il mondo parlarono a lungo della vicenda.
Era il 21 agosto del 1911 , quando improvvisamente la Gioconda scompare dal Louvre.
Un episodio che sconvolse tutti quanti ma soprattutto l’allora direttore Monsieur Homolle che fece immediatamente partire le ricerche. Per ben due anni Parigi venne messa letteralmente sottosopra! Ogni angolo remoto della città venne perlustrato, vennero svuotate cantine e sgabuzzini, vennero sospettati tra i colpevoli addirittura Picasso e Apollinaire che avevano sempre espresso la voglia di svuotare i musei e di riempirli con le loro opere.
La Gioconda era finita tra le braccia di un imbianchino italiano di nome appunto Vincenzo Peruggia, che, la mattina del 21 agosto, con molta nonchalance, portò via il dipinto nascondendolo sotto la giacca e custodendolo per ben due anni nel suo appartamento parigino.
Nel 1913 Vincenzo arrivò a Firenze con il quadro in valigia, per cercare di venderlo ad un antiquario fiorentino, al quale scrisse una lettera che diceva: “Il quadro è nelle mie mani, appartiene all’Italia perché Leonardo è italiano”, dando certamente prova del suo patriottismo nel voler riportare il tesoro tanto ambito a casa.
Fissò l’incontro dell’acquisto a pochi passi dal Duomo, presso l’allora Albergo Tripoli Italia (oggi chiamato Hotel Gioconda) ma anziché con l’antiquario si trovò a dover contrattare con la polizia! Il nostro coraggioso imbianchino venne arrestato e incarcerato per un anno e la Gioconda venne restituita a Parigi.
Il furto del dipinto contribuì notevolmente alla nascita del mito della Gioconda, tanto che da quel momento in poi la Monna Lisa iniziò ad essere una vera e propria icona contemporanea.
Giornalisti, critici dell’arte, psicologi, studiosi e appassionati d’arte fecero e fanno tutt’oggi anche la loro parte.
“La letteratura sulla Gioconda è senza limiti, come la sua fama” affermava André Chastel, noto storico dell’arte francese e studioso del Rinascimento italiano. Sul quadro sono stati scritti innumerevoli libri specialistici e divulgativi.
Della Gioconda la maggior parte degli scritti ha avuto come tema centrale il suo misterioso sorriso, un sorriso che, come è stato osservato dagli stessi studiosi, è nello sguardo prima che sulle labbra.
Il sorriso della Monna Lisa ha affascinato gli storici e gli appassionati d’arte e ha fatto versare fiumi d’inchiostro.
Anche Sigmund Freud (1856-1939), a seguito del suo celebre testo L’interpretazione dei sogni affronta e delinea in primis la figura del maestro partendo da un sogno che il da Vinci accenna nei suoi manoscritti. In questo saggio del 1910 non manca il tentativo di Freud di svelare l’enigma celato nel suo celebre sguardo e nel suo sorriso.
In questo marasma di innumerevoli Indagini sul come mai sorride, perché, quando interviene nel 1919 Marcel Duchamp.
La fama della Gioconda è ormai un dato di fatto, fama dovuta anche ad un pubblico che in molti casi non capisce nulla di arte e che si è semplicemente adeguato al conformismo.
Il suo intervento si intitola L.H.O.O.Q, ma è più conosciuto come “Gioconda con i baffi”.
Si tratta un’opera paradigmatica, capitale per lo svolgimento dell’arte contemporanea ma spesso incompresa.
Marcel Duchamp (1887-1968), capofila del gruppo dadaista ed eccezionale sperimentatore, segna con quest’operazione un punto di rottura e dà inizio ad un nuovo modo di concepire la stessa nozione di “arte”.
Il movimento dadaista, sorto nel 1916 a Zurigo da un gruppo di artisti e poeti (Arp, Tzara, Ball) e negli Stati Uniti grazie a personaggi come Duchamp, Picabia, Stiegliz e Man Ray, si propose fin dal principio come una contestazione totale di ogni valore, a cominciare dall’arte.
Erano gli anni del primo conflitto mondiale e la reazione morale degli artisti verso la barbarie della guerra portò ad una posizione di aperta polemica contro la società, con la sua ipocrisia e le sue contraddizioni.
Dada, un termine senza senso, è l’anti-arte per eccellenza, un movimento radicale, provocatorio, che usò spesso i mezzi dell’ironia, della dissacrazione , del non-sense.
Ma se si osserva più da vicino, dietro alle provocazioni nasceva una riflessione profonda e articolata sul ruolo dell’artista nella società moderna e sulla questione del valore estetico, cioè su cosa realmente distinguesse un’opera d’arte da un oggetto qualsiasi.
Secondo Duchamp ciò che determina il valore estetico non è più un procedimento tecnico, un lavoro, ma la scelta dell’artista, quindi un atto mentale, una diversa attitudine nei confronti della realtà.
Nasce così il ready-made, operazione artistica dove un oggetto “già pronto” (ready) e "fatto" (made), ovvero non progettato, ma semplicemente scelto, viene presentato come “opera d’arte”, talvolta in combinazione con altri oggetti o altri interventi.
L.H.O.O.Q. è un esempio di ready Made definito rettificato perché interviene fisicamente inserendo dei segni.
Duchamp prende una riproduzione di un capolavoro universalmente riconosciuto e, con un intervento minimo, lo “rettifica” facendo spuntare alla Monna Lisa barba e baffi.
Con questo gesto l’autore non vuole sfregiare un capolavoro, ma semplicemente contestare la venerazione che gli è tributata passivamente dall’opinione comune.
Speculari in questo senso si possono considerare altri interventi dell’artista francese come l’esposizione di una ruota di bicicletta o del famoso orinatoio(con tanto di firma), in musei e gallerie d’arte dissacrando a sua volta tutto il sistema delle aspettative di un pubblico che è abituato a trovare, in questi luoghi, determinate cose.
La misteriosa sigla del titolo LH.O.O.Q. ci fornirebbe poi la chiave per intenderne il senso.
Lette in francese una di seguito all’altra, le cinque lettere danno:” Elle à”, cioè “Lei ha caldo al sedere”.
Per tanto se sorride ed ha quello sguardo, è ora di finirla interrogarsi e scrivere in continuazione saggi, ha semplicemente “chaud au cul”.
L’arte di Marcel Duchamp offre dunque molteplici livelli di lettura e di interpretazione e dimostra ancora una volta il suo valore fondativo per gran parte dell’arte successiva.
Basti pensare alla sua influenza sulle neoavanguardie dagli anni ’50 in poi e in correnti come il neodada, la performance, la body art, l’arte concettuale, attraverso attitudini con le quali tuttora.
15 Aprile 1874: l'effetto "The Comedian" e la nascita del termine IMPRESSIONISMO alla prima mostra sul Boulevard des Capucines.
Alle 10 di mattina, il noto fotografo Nadar aprì le porte del suo studio, al 35 di Boulevard des Capucines, inaugurando la mostra di un gruppo di giovani pittori, riuniti sotto il nome di "Société anonyme des artistes peintres, sculpteurs, graveurs". Biglietto d'ingresso al costo di un franco, cinquanta centesimi il catalogo.
Boicottati dal Salon Ufficiale parigino, l'anonimo gruppo, guidato da Claude Monet e composto tra gli altri da Cézanne, Degas e Renoir, decise di sfidare la massima istituzione artistica francese organizzando una mostra in proprio e in anticipo rispetto su quella del Salon. Un gesto di rottura in linea con la portata rivoluzionaria della loro tecnica pittorica, che metteva in discussione i canoni classici della tradizione.
In sostanza si trattava di un gruppo di amici, artisti di talento un po’ scapestrati, che non ne potevano più delle ferree regole imposte dalla cultura accademica dell’epoca. Con l’energia e l’entusiasmo dei rivoluzionari decisero di disobbedire a quelle regole che consideravano antiquate perché ritenevano fosse scorretto porre freni alla creatività.
Punto cardine dell’arte di questi giovani artisti è la pittura “en plein air” (all’aria aperta): essi abbandonano il chiuso degli atelier per dipingere la realtà “dal vivo” e cogliere così l’infinita varietà della sfumature che compongono i colori. Questo nuovo approccio alla pittura è reso possibile anche grazie all’invenzione del “cavalletto da campagna” (portatile) e dei colori in tubetto, più pratici da usare negli spostamenti e più immediati, visto che non costringono l’artista a mescolare i pigmenti per formare i colori. Le opere create rappresentano la realtà così come viene percepita dall’occhio dell’artista nel momento in cui la dipinge. I colori non sono più mescolati sulla tela ma vengono semplicemente accostati. Quello che principalmente interessava loro era cogliere nell’opera il preciso istante della luce, fermare il tempo in quel determinato momento del giorno sulla tela: in poche parole, come gli effetti della luce "impressionano" il soggetto in un dato momento.
Aboliscono il disegno preparatorio, inoltre, l’ombra non è più lo scuro contrapposto al chiaro, ovvero il colore della cosa con l’aggiunta del nero in contrapposizione allo stesso colore con l’aggiunta del bianco, bensì sono tutti i colori che compongono la luce del sole che investono i corpi, fatta eccezione di quello respinto: quindi l’ombra è in sostanza colore, come la luce, e come tale rientra nella gamma delle tinte conosciute. Queste tinte ombra vanno ricercate nei colori cosiddetti secondari e terziari, come i viola e i marroni, o più in generale i cosiddetti grigi colorati.
Il pubblico e la critica non accolsero benevolmente l’esposizione della Société anonyme, bensì la stroncarono.
Fu Louis Leroy che, riferendosi proprio al dipinto di Monet Impression, soleil levant, scrisse pochi giorni dopo la famosa esposizione un articolo sulla rivista “Le Charivari”: Leroy l’aveva visitata in compagnia di Joseph Vincent pittore paesaggista. Nell’articolo si legge il dialogo tra i due: “Ah, eccolo, eccolo! Che cosa rappresenta questa tela? Guardate il catalogo”. “Impressione, sole nascente”. “Impressione, ne ero sicuro, Ci dev’essere dell’impressione, là dentro. E che libertà, che disinvoltura nell’esecuzione! La carta da parati allo stato embrionale è ancora più curata di questo dipinto”. “Ma cosa avrebbero detto Bidault, Boisselier, Bertin, dinanzi a questa tela importante?” “Non venitemi a parlare di quegli schifosi pittorucoli!”.
Il pezzo testimonia la totale stroncatura e la critica d’inferiorità mossa da Leroy nei confronti del gruppo di artisti emergenti, ma si rivelò celebre perché fu questo articolo che coniò il termine “impressionisti”. Una definizione satirica, che sottintendeva un significato negativo, che divenne nelle mostre a seguire una denominazione caratterizzate (effetto The Comedian").
Il termine "impressionismo" in realtà ha già nella sua radice, "impressione", l'idea stessa su cui si fonda la ricerca di questi artisti, e sicuramente proprio per tale affinità prenderanno questa definizione avversa come nome identificativo del gruppo. Ecco come che una stroncatura si porti in evidenzia quella che è poi la caratteristica della loro stessa ricerca: l'impressione della luce sui soggetti.
Ma, mentre per gli artisti accademici il soggetto doveva avere qualcosa di storico, di pittoresco, vuoi la poeticità, vuoi l’eccezionalità, vuoi la varietà degli elementi naturali, per gli impressionisti il soggetto doveva essere il più comune possibile, cioè non essere scelto in virtù di una qualche sua potenzialità artistica: l’arte non è nell’oggetto che produce le sensazioni, ma nelle sensazioni stesse.
La novità dell'Impressionismo e di questi artisti sta nel fatto che essi affermano che l’arte vive del fenomeno percettivo stesso ovvero che l’arte dipende dal processo visivo. Il processo visivo dipende dalla luce, da come viene assorbita o riflessa; dunque bisogna guardare alla realtà visiva come ad un complesso di radiazioni luminose, riverberi, ombre; e siccome la luce è colore, il complesso di luci non è altro che un complesso di colori. Dunque all’artista non interessa l’oggetto in sé, ma la sensazione luminosa che lo investe e lo "impressiona", e l’illuminazione non deve essere particolare, ma la più naturale possibile: ecco spiegato perché i soggetti dei quadri impressionisti si riferiscono sempre a situazioni contingenti, prive di importanza storica, brani di vita quotidiana.
Ecco perche a seguire il grande e "doc" esponente dell'Impressionismo Monet, trasferitosi nel 1892 a Rouen dipinse in due anni 48 tele dedicate alla facciata della cattedrale.
L'ultimo periodo della sua vita lo vedrà nella sula casa a Giverny, nella regione della Normandia, dove vi morì nel 1926. In questo piccolo angolo di paradiso Monet si fece trasformare il frutteto in un giardino giapponese con un ponte verde giapponese che conduce al famoso stagno con le ninfee e i salici piangenti, soggetti del suo ciclo pittorico che lo rese immortale.
Tra spaccati di vita quotidiana di Renoir, insofferente anche lui alle regole accademiche ma amante del disegno preparatorio, si menziona una delle tele più celebri, il Ballo al Moulin de la Galette del 1867, che ritrae le danze in un giardino parigino nei pressi di Montmartre frequentato dall’artista.
In questo caso, la tecnica impressionista si traduce nello sfumare dei contorni delle figure e degli oggetti, in una mescolanza di colori che riesce a concretizzare l’effetto dinamico della scena. Tutta l’atmosfera festosa e spensierata è resa dal colore vibrante che, tra giochi di luce (filtrata dagli alberi), ombre e riflessi, si espande in un movimento gioioso e frizzante. L'opera nel suo atto creativo però si allontana dagli intenti impressionisti: è, infatti, dipinta in atelier e in parte prendendo schizzi dal vivo.
Si menziona, inoltre, La colazione dei Canottieri del 1880, rappresentato en plein air, dove immortala in stile impressionista dei canottieri che, dopo aver vogato in canoa si ritrovano con degli amici nella veranda di un ristorante per magiare.
Nell’autunno del 1881 Renoir è in crisi. L’impressionismo gli sta stretto: desidera studiare a fondo il disegno, la linea, la tecnica a olio e rendere le forme in modo più incisivo. Seguendo l’esempio di Ingres, decide di partire per l’Italia per conoscere da vicino l’arte antica e i maestri del Rinascimento. Si innamorerà della pittura veneta, degli affreschi di Pompei, del grande Raffaello. E la sua arte non sarà più la stessa.
Ne è testimone l'ultima sua grande opera dedicata alle bagnanti, completata nel 1919, nello stesso anno in cui l’artista morì.
Nell'opera si può notare uno sfondo prettamente impressionista su cui si stagliano due bagnanti, che con il loro corpo florido e vitale, si mostrano gaudenti nella pienezza della propria straripante fisicità, di chiara influenza "italiana".
Infine per chiudere sull'Impressionismo menzioniamo l'altro artista di punta: Degas che, nonostante l'appartenenza al gruppo degli impressionisti, mantenne sempre una certa distanza tra il proprio stile e quello impressionista a tal punto da criticare espressamente la tecnica dell’en plein air non amando per niente la pittura all’aperto.
Come gli altri impressionisti dipingeva il mondo intorno a sé in modo fresco e informale, per dare la sensazione di scene spontanee e non progettate. Spesso utilizzava dei punti di vista molto particolari o figure inquadrate come in uno scatto fotografico. Tutta questa spontaneità era solo apparente però, perché frutto di lunghe ore di studio.
Tra i suoi soggetti preferiti non mancarono le donne, ritratte in ogni dove, con particolare interesse verso il mondo delle ballerine.
L’étoile del 1878, si evidenziano tutta una serie di punti interessanti: lo stile pittorico veloce tipico del''impressionismo, l’espressione del movimento nell’immediatezza del gesto ed infine lo studio di inquadrature nuove. Si noti, ad esempio l’arditezza dello scorcio dall’alto che da all’immagine un fascino tutto particolare. Della ragazza si vede una sola gamba, il che le da un aspetto del tutto instabile. Ma ciò aumenta la sensazione della dinamica in corso. La sua figura non occupa il centro dell’immagine ma è chiaramente decentrata. Per quasi due terzi del quadro domina quindi il piano del palco, mentre la restante parte ci lascia intravedere parte delle scene dietro le quali si nascondono altre ballerine. Ma l’attenzione dell’osservatore è catturata tutta dall’istante in cui il movimento della ballerina si ferma in una posa di grande leggerezza e grazia.
Nelle tele di Degas le ballerine sono protagoniste non solo quando sono in scena, ma anche in momenti meno ‘ufficiali’ durante la lezione quotidiana di danza nello studio in quanto Degas dal 1872 inizia a frequentare il ridotto e la sala prove dell’Opera di Parigi.
Tra le donne parigine immortalate da Degas non manca da menzionare l'opera de L'Assenzio del 1875.
L’assenzio è noto anche come I bevitori di assenzio e documenta una triste realtà dell’epoca. Degas non si limitò alla rappresentazione di natura e paesaggi come molti artisti impressionisti. Il dipinto de L’assenzio ritrae invece gli avventori di un caffè parigino ma in particolare il caffè passa dall’essere un luogo di incontro e di conversazione ad un ambiente in cui la solitudine e la tristezza sono i padroni incontrastati. Si tratta di una scena molto forte e di cruda realtà: l’alcool consumato dai protagonisti li devasta fisicamente e psicologicamente, facendoli diventare quasi delle marionette, quasi come se fossero dei gusci vuoti. (Trattasi ovviamente di una scena "inventata" e messa in scena con tanto di attori).
Come si è potuto notare gli ideali degli Impressionisti non hanno avuto una vita molto lunga, già in corso d'opera alcuni artisti si discostavano da alcuni suoi punti caratterizzanti: il gruppo vedrà all'attivo solo poche mostre, in particolare 8 mostre, tra il 1875 e il 1886 e vedrà inoltre l'avvicendarsi di figure diverse di pittori e artisti.
Eccole in sequenza:
- 1874: prima mostra della Société anonyme des artistes peintres, sculpteurs et graveurs' nell'atelier di Nadar;
- 1876: seconda mostra di pittori impressionisti;
- 1877: terza mostra;
- 1879: quarta mostra;
- 1880: quinta mostra;
- 1881: sesta mostra;
- 1882: settima mostra;
- 1886: ottava e ultima mostra, alla quale parteciparono Gauguin, Seurat e Signac.
Molti di questi artisti prenderanno strade diverse abbracciando altrettante modalità nuove di approccio alla realtà.
Con l'avvento della fotografia (Il termine deriva dal greco phos, “luce”, e grapho, “scrivere”, ossia “scrivere con la luce”), molte prestazioni sociali passano dal pittore al fotografo (ritratti, vedute di città e di paesi, illustrazioni).
La crisi colpisce soprattutto i pittori di mestiere, ma tuttavia sposta la pittura come Arte a livello di un’attività di maggiore importanza. In questo momento la crisi porta a ad una reazione, ossia a concepire l’opera d’arte come un prodotto eccezionale destinata un pubblico ristretto, ed avere una portata sociale limitata.
A un livello più elevato, le soluzioni che si prospettano sono due:
1) si elude il problema sostenendo che l’arte è attività spirituale che non può essere sostituita da un mezzo meccanico;
2) si riconosce che il problema esiste ed è un problema di visione, che si può risolvere soltanto definendo con chiarezza la distinzione tra i tipi e le funzioni dell’immagine pittorica e dell’immagine fotografica e, come ha fatto l’Impressionismo, gareggiando con essa, sia nell’intelligenza della ripresa, sia nella sua istantaneità, sia col vantaggio del colore.
L'Impressionismo ebbe anche un esplorazione scultorea: durante la seconda metà dell'Ottocento alcuni artisti hanno cercato di esprimere con la scultura l'idea di arte impressionista. Per trasmettere la sensazione di immediatezza e fugacità delle immagini e, sopratutto, il dato naturale della luce e la possibilità di fissarne il palpito fuggevole, essi usano forme incomplete, appena abbozzate o anche "non finite".
La scultura impressionista annovera diversi esponenti tra i quali sono degni di menzione il francese Auguste Rodin e l'italiano Medardo Rosso.
Auguste Rodin (1840-1917), considerato il Michelangelo dell'arte contemporanea, studia a Parigi ma, dopo un viaggio in Italia, abbandona lo stile classico e accademico per dar realizzare sculture cariche di vitalità e tensione caratterizzate anch'esse dal linguaggio tipico dell'Impressionismo e dal “non finito”. Il suo stile è segnato dal tentativo inesausto di fissare il movimento, la luce ed il suo variare nello spazio e nel tempo.
La sua opere più celebre, sebbene ce ne siano molte, è “Il Pensatore", una scultura che era destinata a decorare la porta dell’inferno.
Quest’opera, che rappresenta Dante che medita sulla propria opera, La Divina commedia, immerso nei propri pensieri, in realtà mostra molto più di questo. La figura del poeta con la testa appoggiata a una mano, ha assunto un significato universale: l’uomo moderno che riflette sul suo destino, carico di incertezze. La modalità di Rodin di scolpire il suo Pensatore si basa sul concetto di imitare le pennellate dei suoi amici impressionisti Monet e Renoir. La muscolatura della figura è scolpita in modo definito e potente. La tensione muscolare si può vedere, ad esempio, nella flessione delle dita dei piedi. I polpacci sono tesi e ben modellati. Il torace è rappresentato con una leggera torsione a causa del gomito sinistro che poggia sulla gamba destra flessa. Oltre al non finito michelangiolesco, in questa scultura è presente un richiamo alle anatomie ideate dal grande artista del Rinascimento italiano.
Medardo Rosso (1858-1928) abbandonati gli studi presso l'Accademia di Belle Arti di Brera, si trasferisce a Parigi dove entra in contatto con gli Impressionisti e inizia a realizzare opere ispirate al loro linguaggio.
La sua opera più celebre è Aetas Aurea del 1886, un piccola scultura dedicata alla moglie e al figlio.
L'opera si rivela rivoluzionaria per la scelta dello scultore di concentrare la sua attenzione solo sui volti delle due figure. L'idea di luce, di fugacità, di movimento e incompiutezza che la scultura trasmette deriva dall'uso della cera che l'artista applica direttamente sul modello in gesso. L’opera non ha forme nette e definite ma piuttosto informi, a tratti abbozzate, cosicché da ogni angolazione, in base alla luce che la impressiona, si possa cogliere una diversa impressione delle espressioni.